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La dura arte del vivere, oggi come ieri!

 Approfondimento al Libro di Giobbe:

Probabilmente, se il Libro di Giobbe fosse affidato oggi a una commissione dottrinale o teologica per decidere se inserirlo o meno nel canone, si giungerebbe a non inserirlo nel timore di creare disagio e disturbo. (Carlo Maria Martini)

sofferenza

Giobbe non maledice Dio. Anche quando la moglie con parole taglienti lo provoca “Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!”, Giobbe rimane integro, un uomo fermamente religioso: «Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?». Giobbe contesta Dio, lo processa ma non lo nega.
La moglie gli suggerisce una sottile forma di ateismo, di morire, di lascarsi morire: con un coccio in mano e seduto sull’immondezzaio del villaggio, abbandonato da tutti, senza più affetti, marchiato come impuro, scomunicato e avvolto dalla buia notte del non senso perché continuare a vivere? Seduto sui rifiuti del villaggio in compagnia di altrettanti “Giobbe” maledetti e dimenticati perché continuare a lottare, a chiedere la presenza e la Parola di un Dio che sembra essere sordo e muto di fronte alla sofferenza innocente?
Giobbe sceglie la via più difficile e continua a credere, maledice il giorno in cui è nato ma sceglie di vivere. Diventerà la voce di milioni di innocenti che tra le immondizie della terra scelgono, con dignità, la dura arte del vivere, la dura crosta della fatica di credere. Giobbe, come tutti gli abbandonati della terra, non ha la presunzione di spiegarci il senso del dolore innocente, ma si chiede se è possibile parlare di Dio di fronte al dolore innocente. C’è questa possibilità?
E’ possibile parlare di Dio in un reparto di oncologia pediatrica, nelle tante Auschwitz di ieri e di oggi, nelle chiuse stanze di un manicomio dove i malati sono abbandonati a sé stessi e giocano con i propri escrementi? E’ questa la strada scelta dall’autore di questo meraviglioso libro: continuare a parlare di Dio non tra le pietre votive del Tempio ma nei concimai delle periferie dove i Giobbe di turno imprecano, processano tutto e tutti, ricordano con nostalgia i giorni “del loro autunno quando si lavavano i piedi nel latte e la roccia gli versava ruscelli d’acqua”, pregano, piangono, sperano. Giobbe percorre la via della vita, accetta la sfida della propria sventura perché seduto su un cumolo di spazzatura sa porsi delle domande, si mette in ricerca e chiede a se stesso e a noi: “Può l’essere umano credere in Dio in modo disinteressato, senza attendersi ricompense né temere castighi? C’è qualcuno che, in una situazione di sofferenza ingiusta, sia capace di affermare la propria fede in Dio e di parlare di lui, gratuitamente?” Domande attuali, moderne, dell’uomo di ieri, di oggi e di sempre. Ecco perché Giobbe esce dai canoni biblici e diventa patrimonio di tutta l’umanità, compagno fedele di chi, ricoperto di un morbo maligno, non cerca risposte banali alla sua sofferenza. Partendo da queste considerazioni un desiderio di Giobbe è già stato esaudito: “Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro sul piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia!”. Ogni sofferenza, ogni lacrima è impressa con stilo di ferro, il grido degli ultimi è scritto da sempre sul libro di Dio.

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